SlowMind One

Una fanzine di letteratura impopolare

Le Cervelliere

Marco Lavighe

<<Cominciarono a richiedermi le cervelliere due anni fa, signore, dopo quel fattaccio di Mestre. Fu un boom. Prima di allora zero, ne avevo vendute. Zero, mi creda,  stavo per far chiudere la produzione. Adesso le fabbricano addirittura in Cina, si figuri. Un successo>>

<<In Cina? Concorrente pericolosa>>

<<No, nessuna concorrenza. Stranamente, i cinesi in questa occasione sono stati … come dire …  poco globali: le loro cervelliere vestono solo crani cinesi. Da non credere! Un cittadino europeo (per tacere di un americano) non riuscirebbe mai ad infilarsi in testa un prodotto simile. Forse un bambino, ecco. Ma affiderebbe lei il futuro del suo pupillo a un loro prodotto? Son di gomma, s’intende. Le mie invece, di metallo. Senta qua!>>

<<Molto resistente>>

<<Ci si andava in guerra, un tempo, con questi aggeggi>>

<<Sono curioso. Quando le è venuta l’idea? Insomma, come ha capito che all’umanità sarebbero servite proprio le cervelliere per sopravvivere?>>

<<Ah Ah. Non l’intera umanità, signore, ne ha bisogno. Mi perdoni la chiosa, ma sono quelli come noi (sa: società affluente, progresso, tecnologia) ad averne urgenza. Non fraintenda, mi piacerebbe moltissimo. (Se solo penso al fatturato) >>

<<Giusto. Ma quanto all’idea, cosa può dirmi? Non credo che in luogo di una mela, a lei sul capo sia caduta una cervelliera>>

<<Diciamo che mi sono guardato attorno>>

<<E cosa ha visto?>>

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A Sta Per Altezza

  Elisa Schiavi

Il mio gatto si muove intorno, senza guardarmi. È  felice, lo sento. I baffi sono elettrici, la polvere della cucina vaga, come ad ispessire la mia noncuranza. Taglierò le verdure e starò bene attento a non fargli male coi miei pensieri.

Io sono Mario. Sono alto meno di un metro e quaranta centimetri. A volte importa, altre meno. Oggi ho deciso di no, di non pensarci e di non pensare. Ho una casa da bambola e porto vestiti da bambino. Sono piccolo e, ormai, non più giovane. Quando nacqui, qualcuno sorrise e quel sorriso rimase congelato in quella strana circostanza. Il figlio minore, il figlio più piccolo. Me la rido. La vita è buffa, spesso.

Ho una piccola pensione di invalidità (congenita, aggiungo io) e sono cattivo. L’handicap rende sempre feroci. Io ci dondolo nella ferocia, muovendo le mie gambette corte e malferme. Supero le file per dispetto, insisto per i posti a sedere sul bus, anche con le donne incinte e fingo di piangere per bere un cognac gratis.
Una volta conobbi una donna, piccola ed infelice, normale nella sua piccolezza. Può essere una favola, può avere un lieto fine, ma io sono un nano e lei non stava bene. Vagava per la città, con gli occhi grandi, silenziosa e infagottata in un cappotto troppo colorato per lei e le sue ansie. Si perdeva per le strade e la cosa mi inquietò. Non poco. Mi incuriosì anche. Le offrì un thè caldo al bar dell’angolo: Signorina, la vedo smarrita. Lei rispose prontamente con un sorriso.
Gli incontri si ripeterono. Ogni volta lo stesso dialogo e gli stessi cenni perché lei non aveva memoria. Teneva nella borsa un foglietto con la diagnosi e i recapiti telefonici di chi l’assisteva. Avrebbe dovuto mettersi un cartello con scritto: io non ho memoria.
Facevamo una bella coppia, i ragazzini ci tiravano dietro i sassi, se non ne trovavano ripiegavano sulle noccioline. Lei dimenticava sempre che in quell’angolo c’erano loro ad aspettarci; una volta mi presentai a lei con un casco da motocicletta per proteggermi dai lanci e lei non si sorprese. Mi disse: ogni giorno mi sorprendo sempre, vederla così non mi meraviglia più di tanto eppure io sono sempre sorpresa. Era vero. Me la ricordo con gli occhi sempre sbarrati. Perfino nella bara. Come se fosse una festa o una tragedia improvvisa.
Più di una volta mi volle vedere nudo. A quell’epoca io facevo culturismo. Vedere i suoi occhi fissi su di me dava soddisfazione. Gratificava. Era solo questo; ogni volta.
Un giorno feci meno attenzione a ricordarle che il semaforo dell’incrocio accanto all’edicola non funzionava. A me è bastato così, tenere la ferocia soffocata per un poco.

Cubicolo

Elisa Emiliani

– Cubicolo! Si chiama cubicolo!

– Continua pure a trastullarti con queste cazzate semantiche. La realtà è che vivi in un loculo.

– Sarà anche un loculo, ma almeno è mio – rispose Diana con stizza. Era suo, lo possedeva quel loculo … cubicolo.
I monolocali più venduti nell’ultimo decennio. In fondo quando hai una consolle a realtà virtuale che te ne fai di un appartamento?

A dirla tutta ce l’aveva, un appartamento. Pagava 3 dollari al mese per mantenere uno spazio virtuale molto confortevole, con due camere da letto, cucina, salotto e bagno. Organizzava feste colossali, spendendo pochi centesimi per acquistare online qualche dose della nuova droga sintetica che stava spopolando sul network: la Seline_WBO-997. L’effetto era quello del J. D. d’importazione: leggera perdita di controllo muscolare, ebbrezza, disinibizione, frenesia sessuale.

A che le serviva un appartamento vero?
Da quando aveva scoperto le droghe telematiche, Diana aveva smesso di pensare che l’interazione autentica fosse un lusso a cui aspirare. Che i ricchi tenessero pure i loro ricevimenti in appartamenti reali e polverosi, che importava?

Si diceva che quando un utente web riusciva ad ottenere nella realtà quello che aveva in rete fosse appagato. A Diana questa teoria non convinceva. I laboriosi informatici dei secoli passati avevano speso tempo e fatica per creare la Vita2, allora perché loro avrebbero dovuto a tutti i costi tentare di tornare a una situazione di Vita1? Che senso aveva?

I precipitati materiali non l’attiravano affatto.
I bambini, per esempio. Che bisogno c’era di partorire con dolore un bambino vero quando sul web potevi averne una schiera gratis, sani e belli? E se ne veniva fuori uno che piangeva troppo potevi sempre regalarlo all’orfanotrofio V2 senza alcun rimorso di coscienza. Se invece fosse stato un bambino vero? Con che coraggio lo si sarebbe potuto abbandonare?

La realtà virtuale era migliore, senza dubbio più igienica.

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Estrid

Neisth

Quello che più di tutto senti sia destinato a perdersi devi tramandarlo, almeno in parte, in qualsiasi modo tu conosca. Ho trovato oggi una vecchia scatola che tenevo su in soffitta, non ricordo neanche più da quanto, l’ho aperta e visto dentro, tante ce n’erano di cose da sembrare senza fondo.
Ho tirato su una decorazione natalizia in mezzo a tutto il resto. Sta tutta dentro in una mano, ha la forma di un cono, fragile intelaiatura rivestita solo di nastri colorati, con un gancio all’esterno perché si possa fuori appendere, magari ad una porta. Cerco nella mente in quale anno l’abbiamo insieme costruita, e se tutti i ricordi si confondono non lo fanno ancora i tuoi occhi scuri, un colore che certo non ho più visto in nessun altro, o solo non ho permesso a nessun altro di averlo. Ho in mano ora questi nastri colorati e mi sembra che più di ogni altra cosa sappiano raccontare la storia di tempi e di mani che si perdono lontano.

Mi ha insegnato mio padre a farle da bambina, mi hai detto. Erano gli anni Settanta e be’, non aveva un soldo, solo ingegno. Arrivò il Natale anche quell’anno e pensò di costruirsi delle decorazioni, senza una logica ragione, perché non aveva neanche un posto preciso dove metterle in effetti. Non doveva neanche avere una casa in quel periodo, ora che ci penso. È stato per tanto di quel tempo ospite di amici e ci mancò tanto così che neanche riuscisse a finire gli studi. C’è questo genere di cose che diventano quasi dei doveri da rispettare, a lungo andare, sono quelle che si dicono tradizioni credo, e che mai nessuna condizione ostacolerà il loro adempiersi; può anche mancare il necessario, eppure mai sparisce quel senso nascosto delle cose.

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Cam Girl In Japan

Francesco Trocchia

I passi per strada si ammorbidivano sulla neve che scaldandosi si scioglieva riflettendo sulle finestre tutto intorno le luci evanescenti e stridule delle insegne al neon. Sushi e shochu. Sushi. E shochu. Solo questo in una squallida strada senza uscita e senza vita di Tokio. Il formicolare di una massa informe appassiva senza bellezza man mano che ci si scostasse di qualche passo. Non si può dormire in questa città se non si hanno tende spesse due dita perché le luci gialle filtrano inondando le stanze della complessa paranoia dell’insonnia. Haru era lì, seduto su una poltrona imbottita nera, striata dagli anni e profumata del colore della pelle del suo padrone intento ad accendersi una sigaretta per prenderne due bei bocconi prima di spegnerla in un bicchiere sporco accanto a lui, lì da giorni. Stava cercando di smettere e non dormiva da giorni. C’erano troppe luci e non dormiva da anni. Aveva i nervi delle gengive che tiravano provocandogli continue fitte agli occhi e le lattine di bevande alla caffeina ripiegate su loro stesse e gettate tutte intorno non facevano altro che indurirgli il cazzo e fargli scoppiare la testa. Per di più continuava dal primo pomeriggio a leggere fumetti in cui donne nude metà umane e metà aliene venivano sodomizzate a turno dalle menti degli umanoidi di un pianeta lontano: erano 7 ore di erezioni e pantaloni gonfi ed accarezzamenti delle punte dei capelli, lunghi fino alle spalle e macchiati di verde acido proprio come suo padre temeva, proprio come suo padre non voleva. Il vecchio Izumo era all’antica, pensava Haru: non ascoltava i “Church of misery”, non chiedeva il perché, non sapeva il perché.

I neon sghignazzavano oltre le tende sottili e i vetri spessi e gelidi quanto i sorrisi di Haru i cui passi scivolati a terra tamponavano umidificando il legno scuro per i calzini bianchi appena sudati. L’aria odorava di trepidazione che anche i graffi sul divano rattrappivano, sembrava il respiro pesante del vino scadente, sembrava l’ora che si illuminava su un timer digitale all’angolo opposto della stanza, sembrava il soffice sbiadire di un evidenziatore sugli annunci di lavoro nei giornali disordinatamente sparpagliati sul pavimento. Lavapiatti 72mila yen. Guardiano notturno in un parcheggio del centro 80 mila yen. Cam girl, dipende da te.

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Trent’Anni

Nicola Feninno

I.

Erano passate otto ore e trenta minuti ed ero ancora in coda, fermo, inchiodato con l’automobile ad un metro quadrato d’asfalto. Avevo avuto tutto il tempo di attraversare una variegata serie di fasi emotive: mi ero stupito, avevo ingolfato la mente di dubbi e speranze, simulato una ferrea calma, mi ero incazzato come una furia, mi ero alienato. Avevo recuperato lucidità col solo risultato di aumentare l’incazzatura; poi mi sono rassegnato, stancamente, una rassegnazione ascetica e composta. Diciamo che alla fine ho elaborato il lutto: ho accettato il fatto di essere incappato nella coda più lunga della storia delle autostrade e tangenziali italiane.

Sono bloccato, immobile. Non sto combinando nulla. Proprio maledettamente nulla. Da otto ore e più di trenta minuti. Sto perdendo tempo. Un sacco di tempo. Ma – ecco la svolta! – ogni ora è vita: insomma, intendo dire, il tempo scorre sempre allo stesso modo. E’ un fatto oggettivo. Sì, certo, poi ci sono le varie poetiche cazzate sul fatto che il tempo si allunga, corre,  procede a saltelli, vola, si arresta in un attimo infinito, eccetera eccetera eccetera. Ma – appunto – considerate lucidamente, sono tutte cazzate.

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Il Biscotto Postmoderno

 Marco Lavighe

Quando con il biscotto ai quattro sapori sbancammo la fiera dolciaria di Isonzo, aggiudicandoci l’ambito premio Frollo, la Curan, il nostro biscottificio, per riconoscenza ci omaggiò con due settimane di vacanza in Messico, tutto spesato: volo, trasporto dall’aeroporto al resort con tre minivan privati, sfarzose stanze singole vista piscina, bevande e cibo in forma illimitata, eccitanti escursioni a piacimento. Come era giusto che fosse, non facemmo complimenti; il nostro biscotto aveva sbaragliato la concorrenza lasciando allibita un’intera giuria di esperti, la Curan ne aveva ben donde di viziarci e ricompensarci. E così, le due settimane messicane trascorsero magnificamente, volarono, come si suole dire quando ci si diverte e si sta bene in compagnia. Balli di gruppo protratti fino all’alba, pantagrueliche abbuffate di enchiladas e fajitas, tumultuose sbronze di tequila, rigeneranti sport acquatici di ogni risma, partitelle a pallone su finissima sabbia bianca, tour alla scoperta del Messico da lasciare senza fiato.
Insomma, un’opulenza che solo in pochi tra noi avevano avuto occasione di sperimentare prima di allora. Non ci fu richiesta lasciata insoddisfatta, neppure quella, formulata dai più irrequieti, di trascorre una o due serate tra le braccia di qualche bel donnino di laggiù. La Curan aveva pensato anche a questo.

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Blatera Blatta

Panurge

Lavarsi il volto la mattina: nella vita di Harold Flop non c’è operazione più rischiosa.
E non tanto per il sapone al guaranà, sia maledetto chi glielo ha consigliato, con cui si ostina a detergersi il viso, pur sapendo bene che, puntuali, arriveranno dolore e lacrime al primo contatto con la pelle; e non tanto neppure per l’acqua fredda sulle sue gote paffute, appena sveglio, che dallo shock sbiadiscono, passando da rosse a un giallognolo piuttosto deprimente. No. Il rischio, per Harold, risiede nell’avventurarsi in solitaria nel bagno, posizionarsi per la toletta di fronte all’enorme specchio, e, davanti ad esso, trovarsi costretto a chiudere gli occhi, fosse solo per un secondo.
Perché Harold Flop, anonimo travet alle poste, è convinto che (ed è disposto perfino a giurarlo su ciò che di più caro ha al mondo: la collezione di lattine di coca cola iniziata nel ‘94, pezzi unici provenienti, mezzo posta, da quasi ogni angolo del pianeta) nell’attimo in cui per colpa dell’acqua e del sapone tiene ben serrate le palpebre, qualcosa di spaventoso prende forma alle sue spalle.
Che cosa, ancora non è riuscito ad intenderlo: di fatto, quando, ultimato il definitivo risciacquo, […]

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