Skippy Non Morire!

di .

Edward S. Portman

Un remake del prologo di “Skippy muore” di Paul Murray

 

È novembre, fuori fa freddo ed è in qualche modo bello vedere, oltre i vetri delle finestre, le persone camminare tutte quante infagottate nei loro cappotti pesanti, le sciarpe legate al collo, i cappelli calati in testa, mentre tremanti si alitano aria calda dentro le mani chiuse a cono, vicino alla bocca. Ruprecht pensa: non sarebbe altrettanto bello se in quel preciso momento pure lui stesse in qualche modo gelando, senza neppure la maglia di lana a strisce orizzontali blu e grigie, quella con il collo alto, le maniche lunghe e la vita slabbrata senza più forma. Tutto quanto avrebbe un sapore estremamente diverso, più agghiacciante, direi, pensa Ruprecht.

Da Ed’s la gente entra sbattendo la porta a vetri dell’ingresso – senza fare caso alla voce scocciata della grossa Ellen, cameriera nonché proprietaria del locale, che a ogni nuovo cliente ripete di fare attenzione, cristo santo, che prima o poi la finirete per rompere quella dannatissima porta! – si scrolla di dosso il freddo e il malumore. Le persone, almeno quelle normali, non vengono da Ed’s per il cibo o le bevande o per chissà cos’altro possa attirare la loro attenzione; le persone, in questo periodo dell’anno, vengono da Ed’s perché è l’unico posto dove potersene stare bene bene al caldo tra l’uscita da lavoro e il ritorno a casa per cena, nascondendosi per qualche minuto alle preoccupazioni della giornata e a quelle del domani. Ormai Ruprecht li conosce tutti i frequentatori assidui di Ed’s, non per nome ma almeno di faccia. Ogni giorno vede più o meno gli stessi volti stanchi, annoiati, spenti. A ognuno di essi Ruprecht si diverte a disegnargli addosso una loro storia del tutto inventata, supposta in un modo o in un altro da qualche piccolo particolare, magari di poco conto, ma capace di attirare la sua attenzione. C’è Murphy – nome inventato – per esempio,  un uomo sulla cinquantina, già coperto di rughe così profonde da fare pensare che il sudore gli si fosse ghiacciato in faccia […]

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oppure

e avesse scavato questi immensi solchi larghi, orizzontali sulla fronte per la maggior parte. Lui da giovane aveva avuto una storia con Ellen e lei ne era ancora in qualche modo innamorata. Era l’unico a non essere rimproverato quando entrava, per lui la porta sembrava essere più resistente.

Oppure c’è il distinto Guinness – altro nome inventato – sempre seduto come in primo piano, quasi volesse essere costantemente al centro dell’attenzione. È accompagnato ogni giorno da una signora dai capelli lunghi rossi, una donna di mezza età, truccata pesante attorno agli occhi e sulle labbra, vestita elegante con abito quotidianamente tendente al rosso, acceso, dei suoi stessi capelli. A lei Ruprecht non ha mai dato un nome. Loro due sono colleghi di lavoro, in una ditta o in una banca, ma con gli uffici separati, lontani. Hanno una relazione, nata chissà come in uno strano incrocio di corridoi e fotocopie e occupazioni ripetitive. Si ritrovano da Ed’s per stare soltanto seduti uno accanto all’altra, senza dirsi niente di particolare, in uno strano silenzio parlato, per poi tornare incuranti a casa dalle loro rispettive famiglie.

O ancora: Bass – inventato pure lui – di schiena a tutti e al mondo intero. Non si gira mai e non parla con nessuno. Si limita a starsene in un angolo, tutto ingobbito nel suo soprabito, senza togliersi neppure il cappello. Ha commesso un crimine efferato, magari uccidendo sua moglie a furia di martellate in testa, ma è riuscito a farla franca per un chissà quale cavillo tecnico o inquinamento di prove. Trascinato in tribunale ne è uscito pulito, senza neppure una macchiolina microscopica invisibile sulla fedina penale; ma dentro di sé sa bene cosa ha fatto e non passa giorno che quella colpa non gli pesi micidiale sulle spalle, con tutta la sua atrocità, senza avere la minima occasione – impossibile – di potere tornare indietro nel tempo per non commettere quello stupido sbaglio. Siede da solo e ordina da bere: sette pinte di birra, scura. Tenta di affogare i suoi ricordi.

Poi ci sono lui e Skippy, seduti al tavolo leggermente decentrato sulla destra rispetto all’entrata, con davanti a ognuno un piatto con sopra sei ciambelle dalla farcitura diversa. La loro storia non ha bisogno d’inventarsela, la conosce bene: la vive.

Tutto è nato un pomeriggio tardi di qualche mese prima, verso sera, quando Ruprecht vedendo passare Ellen vicino al loro tavolo con in mano un piatto di ciambelle straripanti marmellata di more, aveva detto a Skippy: scommetto che non riesci a mangiarne tre di seguito in meno di un minuto. Skippy aveva accettato la sfida di buon grado, contento di poter fare qualcosa per spazzare via una monotonia esponenziale, e in questo modo era nata una tradizione. Da quel giorno, a cadenza settimanale, si rinnovava la sfida, e visto che ormai era appurato quanto Skippy fosse capace di mangiare tre ciambelle nell’arco di un minuto, avevano deciso di affrontarsi faccia a faccia, in una gara a due a chi riusciva a mangiare più ciambelle in minor tempo possibile.

Quel giorno, se Ruprecht avesse vinto, avrebbe stabilito il record di sedici successi consecutivi, una striscia positiva mai eguagliata da quando lui e Skippy si erano inventati quella specie di torneo. La tensione, per questo, si sente, è palpabile, sembra prendere forma in piccoli cubi disposti uno sopra l’altro in quello spazio del tavolino di Ed’s rimasto libero, tra loro due e i piatti di ciambelle, mentre Ruprecht e Skippy si guardano intensi, come due pistoleri in un vecchio film western, i polpastrelli delle dita frenetici a sfiorare i calci delle proprie pistole o la curva zuccherosa della prima ciambella, frementi di potere iniziare a mangiare voraci.

L’orologio del locale deve segnare le quindici con la lancetta dei minuti per dare il via, ovvero cinque minuti dopo l’arrivo delle ciambelle, un periodo di tempo stabilito dalle parti per potersi preparare psicologicamente e decidere quale tecnica adottare, se morsi piccoli e veloci o bocconi grandi e violenti. Di tanto in tanto gli occhi dei due contendenti schizzano rapidi agli angoli delle orbite per controllare il conto alla rovescia, senza per questo perdere di vista il piatto di ciambelle; e quando la lancetta dei secondi inizia a ticchettare dalle trenta in poi, sempre più vicina alla partenza, le occhiate si fanno di volta in volta più rapide, più convulse, impazienti, spasmodiche, fino a quando.

Ruprecht si getta a capofitto sul proprio piatto afferrando la prima ciambella e portandosela alla bocca. Un morso, masticate goffe dovute alle guancie piene: difficile riuscire a buttare giù tutto quel bolo di pasta fritta masticata, intrisa com’è di saliva, il sapore non lo sente neppure, non riesce a distinguerne la farcitura. Non è quello che importa, l’importante è andare veloce, dare un altro morso al pezzo rimasto in mano, chino ancora sopra il piatto, e poi buttarsi in gola quel che resta. Afferrare la seconda ciambella, ripetere lo stesso procedimento, magari tentando di migliorarlo, tritare il cibo più velocemente, o buttarlo giù anche se forse sarebbe troppo presto – sentire un nodo scendergli lungo l’esofago, per poi allargarsi in una sensazione di sollievo appena passa quel presupposto restringimento all’altezza dell’attaccatura delle costole allo sterno, e scivolare via verso lo stomaco in tutta tranquillità.

Sono trascorse solo due ciambelle – il tempo non si misura più in minuti secondi, millesimi di secondo – quando con la coda dell’occhio Ruprecht vede volare fuori dal tavolo il piatto di Skippy. Per un quinto di ciambella, o due masticate, prova il sudore freddo di avere perso, proprio con il record di sedici vittorie consecutive a portata di mano, un passo per entrare nella leggenda; ma poi ci riflette e decide – decide – che è impossibile che Skippy sia riuscito a finire sei ciambelle mentre lui ne ha mangiate appena due. Guardando per terra nota infatti insieme al piatto anche alcune ciambelle, quindi quel gesto, il buttare per terra il piatto, non può essere una specie di esultanza da parte di Skippy: lui, Ruprecht, non ha bevuto, non ha infranto alcuna regola del gioco, e Skippy non ha finito le sue ciambelle. Qualcosa non torna.

Quando Ruprecht alza lo sguardo dal suo piatto per guardare Skippy, vede la faccia del suo amico tutta tremante, un attimo prima che il corpo di Skippy stesso, continuando a vibrare come un cellulare durante una chiamata in modalità silenziosa, cada giù dalla sedia e prenda ad agitarsi dinoccolato in preda a quelli che paiono violenti attacchi epilettici.

In modo piuttosto egoistico il primo pensiero di Ruprecht è di avere ormai la vittoria in tasca, tant’è che non si getta a terra in ginocchio per cercare di aiutare in qualche modo Skippy, bensì afferra un’altra ciambella e se la porta alla bocca, facendo finta di nulla. Nessuno nel locale sembra essersi accorto di niente, ognuno continua a fare esattamente quello che fa sempre, pure in quel momento. Nell’aria c’è lo stesso rumore di fondo chiacchiericciato, parole accatastate una sopra l’altra senza alcun senso, appartenenti a conversazioni diverse, slegate le une dalle altre. Ellen sorride sempre dietro il bancone, lanciando di tanto in tanto occhiate traverse a Murphy. Guinness fa il cascamorto, sorridendo a una battuta della sua amante rossa, e si sganascia dalle risate battendo il pugno sul tavolo, piegandosi in due in un’eccessiva ostentazione di falsa ilarità. Bass tracanna la sua quinta birra, e fra tutta la confusione possibile del locale, come la voce confusa dell’altra gente che ancora, per ragioni di tempo e voglia, non possiede una sua propria storia inventata, tra tutto il brusio sommesso e la musica soffusa di sottofondo, il suono a colpire di più, quasi fosse a un passo dal timpano, oppure ancora più in profondità, dentro il cervello stesso, è il toc sordo del fondo del bicchiere di Bass chi si appoggia sul legno consumato del tavolo. Bevuta, toc. Altro sorso, toc.

È in questa atmosfera, surreale, seguendo il ritmo di questo metronomo, che Ruprecht si ravvede, riacquisisce coscienza, vedendo il suo amico fare quella specie di break dance piegata per terra, senza nessuna musica, e dentro di sé si dice di non potere essere così indifferente, privo di alcun tipo di sensibilità, o morale, o qualsiasi cosa debba smuoversi nella cosiddetta anima di una persona in una situazione del genere, quando il tuo migliore amico se ne sta a rantolare per terra senza nessuno ad aiutarlo. Prende il desiderio di vittoria, il record di sedici gare vinte, lo prende come se potesse essere un pacco o una scatola e lo sposta fuori dalla sua visuale, lo mette da parte. A questo punto, per la prima volta, vede la scena in tutta la sua reale urgenza. E ne ha paura.

Con la bocca ancora piena per metà di ciambella masticata cerca di cacciare fuori un grido, una richiesta di aiuto piuttosto biascicata, con tanto di sputacchi marroncini a volargli fuori al posto della voce. Nessuno si gira, nessuno ne rimane allarmato. Solo quando si getta a terra e monta a cavalcioni sopra la vita di Skippy, lo afferra per il bavero della camicia cercando di fermarlo, mentre dietro di sé sente le gambe di lui ballare in ebollizione rapida, ingoia l’ultimo pezzo di ciambella rimastagli in bocca e urla – questa volta urla davvero – aiuto! Allora sì, riesce ad attirare l’attenzione.

In un istante il locale cade in un silenzio innaturale, un silenzio denso, compatto, non solo a livello di suoni ma anche di movimenti. Nessuno pare muovere un dito, qualsiasi cosa sembra avvenire al rallentatore, almeno agli occhi di Ruprecht. È la prima salita di una montagna russa, dove la carrozza sulla quale si è seduti si inerpica lentissima sulle rotaie e gli unici rumori oltre agli scricchiolii degli ingranaggi sono risatine isteriche per stemperare la tensione, prima della discesa e delle urla e delle braccia alzate, quando il tempo riprende a correre in modo normale, anzi, accelera pure.

Il primo ad accorrere è Bass, o almeno l’uomo a cui Ruprecht ha dato il nome di Bass. Gli piomba addosso disarcionandolo, buttandolo di lato, e prendendo Skippy per la vita lo tira su, in piedi. Gli pratica la manovra di Heimlich, facendo pressione sulla pancia, prima una volta, poi un’altra, e un’altra ancora, a ripetizione.

Ruprecht nel frattempo si mette a camminare a quattro zampe, cercando per terra le ciambelle che Skippy ha lanciato per aria un attimo prima di iniziare a divincolarsi come un matto. Gli pare logico che se ne trovasse una morsicata e capisse cosa possa soffocare il suo amico, in un modo o nell’altro questo potrebbe aiutarlo.

Intorno a loro si è creato un cerchio di vuoto, con la circonferenza disegnata dalle facce preoccupate degli avventori di Ed’s: Ellen, Murphy, Guinness e l’amante rossa di Guinness, tra gli altri.

Aspetta! urla poi a un tratto Ruprecht, non tanto a Bass quanto piuttosto al nulla, o a chiunque. Per terra ci sono sei ciambelle sei, tutte quante belle intere, neppure toccate. Ciò significa che Skippy non ha mangiato niente, e niente gli ostruisce le vie respiratorie: non sta soffocando.

Bass molla la presa. Lasciato senza sostegno il corpo di Skippy cade per terra come una marionetta a cui sono stati tagliati i fili. Il cerchio si allarga, producendo un piccolo boato di stupore, terrore e ansia. Chiunque pare avere paura di toccare qualcosa, come se così facendo potesse sciupare un qualche meccanismo delicato o prezioso. Nessuno dà una mano a Skippy, neppure Ruprecht: è lui stesso a darsi una mano, è la sua mano a muoversi, un po’ a scatti, ma lo stesso a muoversi.

A tentoni, sdraiato con le spalle a terra, lo sguardo vitreo, sempre più vitreo a guardare il soffitto, Skippy cerca di afferrare una ciambella. Quando la raggiunge, avvicinandola con dei movimenti frenetici delle dita, la stringe nel pugno e la schiaccia con tutta la forza rimastagli in corpo. Uno sciropposo ripieno rosso – alla fragola probabilmente – erutta molle nel suo palmo, appiccicandosi e colando un po’ ovunque.

Guardate! Guardate! Si sente gridare con una strana urgenza dalla folla tutt’attorno.

Skippy usa il ripieno della ciambella come se fosse inchiostro, il dito come penna, tracciando sul pavimento alcuni segni che hanno tutta l’aria di essere delle lettere. DIAL è la prima e unica parola comprensibile, poi la marmellata comincia a esaurirsi piano piano e gli ultimi due caratteri si perdono leggermente invisibili sul bianco della mattonella sulla quale sono stati scritti.

DIAL, si domandano tutti. DIAL. DIAL? Per quanto paradossale possa apparire, la drammaticità della scena si è trasformata di colpo in una commedia dal vago sapore casalingo, dove un gruppo di amici sono riuniti davanti a una lavagna a fare il gioco dei film. Skippy a disegnarne il titolo e tutti quanti a dovere indovinare.

Qualcuno si getta in ipotesi azzardate, altri invece procedono con metodo aggiungendo di volta in volta lettere in ordine alfabetico: DIALAA, DIALAB, DIALAC. Ma il primo ad arrivarci è ovviamente Ruprecht, l’unico che avrebbe potuto arrivarci.

Dì a LORI! Esplode zittendo chiunque, con immenso sollievo. Una sensazione di liberazione lo pervade tutto quanto, quasi gli avessero allentato un cappio stretto al collo.

Lori è una ragazza del loro anno, alta, capelli corti a caschetto colore giallo canarino, leggermente mossi; limpida, carnagione bianca come la neve con due occhi verdi enormi in mezzo alla faccia. Sorriso largo a risplenderle tra due sottili labbra deliziose, da baciare, letteralmente: per ore ore e ore. Ogni tanto escono tutti insieme nella stessa compagnia, lei Skippy Ruprecht e altri ragazzi con cui frequentano la scuola. Vanno al cinema o a bighellonare per le strade, da qualche parte, a vedere le partite di calcio in un pub, o da Ed’s, appunto, tutti riuniti attorno a un tavolo a parlare dei compiti o dei professori e di quello che in quel periodo dell’adolescenza pare essere la vita.

Per Ruprecht Lori non è una sconosciuta, ma allo stesso tempo non ha con lei un rapporto tale da permettergli di capire cosa le debba mai dire. Skippy non ha mai parlato di lei in particolare, se non inserendola in uno o due discorsi generici, dove lei si limitava a fare da figura di sfondo, recitare un ruolo da comparsa. Ruprecht ha capito che deve dire qualcosa a Lori, ma proprio non sa cosa diavolo possa essere questo qualcosa.

Cosa? Cosa? Dì a Lori cosa? Ripete rivolto a Skippy con insistenza, quasi arrabbiato perché quest’ultimo non riesce a rispondergli. Il suo amico rimane per terra, con la bocca muta, spalancata. Gli occhi gli sono diventati più grossi, sembrano essere sul punto di scoppiare, esplodere come palloncini troppo gonfiati. Dalla bocca gli esce una schiuma biancastra, priva di bolle, una specie di bava solo più consistente, non della stessa densità della normale saliva. Il corpo continua a tremare, spasmi continui ma meno violenti: delle piccole scosse ad attraversargli ogni singolo muscolo, da capo a piedi. E lo sguardo, disperato, di chi vuole dire qualcosa ma non riesce a farlo.

La mandibola si agita in lenti movimenti di appena pochi millimetri, su e giù, senza però riuscire a proferire parola. Quel miscuglio di umori o vomito o chissà cos’altro che gli risale dalla gola e gli sporca le guancie, colando poi sui capelli e sulla nuca, deve avere insonorizzato le corde vocali, non permette loro di vibrare: lo ha reso muto.

Skippy non ce la fa proprio più, si vede, è allo stremo, non si riesce a capire da dove possa recuperare l’ossigeno per continuare a fare finta di respirare, rimanere ancora vivo.

A parlare al suo posto ci pensa Ellen, posizionata in prima fila nel cerchio di persone. Sospira, un filo di voce: dille che l’ama, dille che l’ama. Lo ripete due volte, intervallando le frasi con un’occhiata liquida rivolta a Murphy. Skippy piega un poco la testa verso la sagoma gigante di Ellen – vista dal basso deve sembrare ancora più grande, con quel suo grembiule sporco legato dietro al collo, e le maniche corte della divisa strette aderenti attorno alle braccia paffute – la guarda e cerca di abbozzare una specie di sorriso, o quello che può sembrare un sorriso. Poi reclina ancora di più la testa sul pavimento, arrivando a toccare un angolo innaturale, come se i muscoli non lo tenessero più in tensione, come una scarpa slacciata senza il piede dentro. Trema un’ultima volta, giusto un leggero fremito, e niente più: rimane fermo, immobile, ma non come avrebbe potuto restare fermo giusto un’ora o anche solo dieci minuti prima, bensì troppo fermo.

Le persone nel locale, forse per la prima volta, realizzano quanto sta accadendo, ancora non pronte a differenziare quello che pensano stia ancora accadendo da quello che invece è già accaduto, passato. Prendono a parlare, in modo confusionario, senza darsi un ordine preciso. Dicono di aprire le finestre, di fare entrare dell’aria fresca, di lasciare respirare il ragazzo, mentre Ruprecht si alza cercando di mettere quanto più spazio possibile tra lui e il corpo esanime di Skippy. Cammina all’indietro, senza voltarsi, e tenta di guardare la scena da più lontano, in modo da poterne vedere qualche particolare che altrimenti gli potrebbe sfuggire: magari un lieve tremolio delle dita a indicare che Skippy è ancora vivo, o i movimenti degli occhi in stile fase rem sotto le palpebre. Ma nulla.

Vorrebbe prenderlo e scuoterlo per le spalle, schiaffeggiarlo o praticargli il massaggio cardiaco, uno due tre, respirazione, uno due tre, respirazione. Sarebbe patetico, anche un pochino di cattivo gusto. Magari i presenti se la potrebbero pure aspettare, una reazione del genere da parte di un adolescente di fronte alla morte del suo migliore amico, in un luogo pubblico come quello, di fronte a tante persone sconosciute. Chissà come affronterebbero loro una situazione del genere a parti invertite? Qualcuno potrebbe scoppiare in un pianto a dirotto, oppure tirare cazzotti al muro, farsi del male. Nessuno, credo, potrebbe mai prevedere la risposta di Ruprecht davanti al corpo tornato fermo di Skippy. Lui non piange, non si fa violenza, piuttosto si scaglia veloce contro Ellen, la getta a terra, per quanto impetuosa è la sua rincorsa e violento il contatto contro il corpo morbido avvolto dal grasso di Ellen. Magari pure Ellen si lascia un po’ andare, chi lo sa? Forse però è un bene, perché solo quando si ritrova sopra di lei, muovendo le mani contro il suo torace, non proprio tirando cazzotti quanto piuttosto delle specie di pacche poco decise, l’ombra di vere e proprie botte, solo allora le lacrime cominciano a rigargli copiose le guancie, e la voce gli si impasta di umori mentre il naso inizia a grondargli nonostante non abbia il raffreddore, e vorrebbe prendere Ellen, senza fare caso al suo peso né al fatto che lui, Ruprecht, non ha tutta questa forza nelle braccia, e sbatterla contro il muro, appenderla a uno degli appendiabiti attaccati alle pareti e maledirla, sì, maledirla, o rimproverarla per non avere tenuto la bocca chiusa, per una volta; rinfacciargli il fatto che se Skippy è morto è solo e soltanto colpa sua, perché ha voluto per forza precisare, finire quella frase al posto suo, ché se non ci avesse pensato lei magari Skippy sarebbe rimasto lì a tremare e sbavare, ma pur sempre vivo, perché sentiva di non potersene andare fino a quando non gli avesse detto di dire a Lori che lo amava, cazzo! Aveva questa semplice frase ad ancorarlo qui, in questo schifosissimo posto, voleva dirle, la vedeva come un compito, e se tu non gli avessi dato la risposta giusta, se non ti fossi intromessa a finire per lui quel che lui invece doveva finire, senza se e senza ma, lui sarebbe ancora qui, a cercare di finire quella cazzo di frase, quella stupida balorda frase romantica del cazzo!

Nessuna di queste parole però gli esce dalla bocca. Gli unici suoni che emette sono dei mugugni privi di significato, lamenti impastati dalle lacrime e dalla rabbia, tanto che Ellen non vede quel gesto, l’averla buttata a terra, o quei pugni leggeri ripetuti contro il suo petto, come un’accusa nei suoi confronti, tutt’altro. Pensa sia un modo per cercare comprensione, affetto. Prova pure ad abbracciarlo, il piccolo Ruprecht, sembra balbettare a fior di labbra, quasi a volerlo coccolare come si fa con un bambino vittima di un torto, un’ingiustizia da niente, priva di significato.

Appena Ruprecht sente le braccia possenti di Ellen cingergli le spalle – gommose oserebbe dire, se solo avesse la lucidità per pensarlo – scatta in piedi respingendola. Il corpo di Skippy è dietro di lui, sdraiato per terra come lo ha lasciato; Ellen è anche lei stesa per terra, appoggiata ora sui gomiti, intenta a rialzarsi, proprio di fronte a lui. Le altre persone gli sono intorno, tutte quante non proprio spaventate o impaurite, quanto piuttosto indecise sul da farsi.

Ruprecht sfreccia fuori dal locale, facendosi largo tra la gente a capannello un po’ attorno a Skippy, un po’ intenta ad aiutare Ellen, un po’ a provare a fermarlo. Esce sbattendo la porta a vetri dell’entrata/uscita – ‘fanculo se si rompe, magari si rompesse – e si ferma a metà marciapiede, poco oltre: la strada deserta, neppure il suono di un’ambulanza in lontananza.

L’aria è glaciale, lo sente nel respirare a singhiozzi sempre più profondi. Gli arriva nei meandri più nascosti dei polmoni, gli spalanca i bronchi con violenza, pura. Le lacrime si ghiacciano agli angoli degli occhi, gli angoli interni, lungo tutta la base del naso. Le mani cominciano a pizzicargli in punta di spilli affilati, prima sui polpastrelli, poi sulle falangi e infine non sul palmo ma sul dorso. Sente le ossa irrigidirsi, nel midollo, risalire le braccia e arrivargli alla base del collo. Un vento novembrino gli entra da uno spiraglio del colletto della maglia e gli lecca umido tutta la colonna vertebrale.

Lì fuori si gela, ma più del freddo, in qualche modo, è una strana sensazione di vuoto, dentro, a pesare ed espandersi: a fare male.

Skippy è morto.